Cosa succede in Venezuela

Le proteste in Venezuela sono difficili da decifrare anche perché governo e opposizione hanno ugualmente le idee poco chiare su come trarre il paese da una situazione difficile e sono concentrati sulla sfida per il potere a colpi di pessima propaganda.
In Venezuela va male e il governo Maduro sembra avere poche idee su come mettere mano alla situazione. All’inizio dell’anno i ministri venezuelani hanno presentato le dimissioni al presidente in risposta all’omicidio dell’ex Miss Venezuela Mónica Spear, morta in una rapina, la cui morte ha richiamato l’attenzione nazionale sul problema della sicurezza. La mossa doveva servire a facilitare la formazione di un esecutivo più adatto a fronteggiare l’emergenza che assale il paese, che non è solo criminale, ma anche economica. Il Venezuela ha sempre avuto statistiche criminali impressionanti, anche per il Sudamerica, e resta uno dei paesi più violenti al mondo, tanto che con i suoi (circa) 25.000 omicidi circa all’anno svetta nelle classifiche e mette in ombra anche paesi come Pakistan, Afghanistan e Iraq.
Una violenza endemica di stampo tipicamente centro-sudamericano che ha paragoni solo in Colombia e in Messico e che ha come propellente la droga e una cultura criminale talmente radicata da fare dei sequestri di persona un’industria. Il chavismo ha penetrato poco questo genere di cultura, pur riuscendo invece ad intaccare la povertà attraverso una politica di redistribuzione del reddito e l’ampliamento dei servizi sociali, ma sicurezza ed economia non ne hanno tratto giovamento. Il paese, pur ricco, soffre un’inflazione che viaggia al 56% e il bolivar è praticamente impossibile da convertire in dollari, situazione che ha provocato nel paese la penuria di molti beni di prima necessità. Mancano la carta igienica, il pane, la farina, la carta da giornale e le linee aeree minacciano di sospendere i servizi perché creditrici di oltre tre miliardi di dollari che il governo non paga.
La risposta del governo è stata quella di «stimolare» la produzione, incentivando i produttori privati e chiedendo il massimo sforzo alle imprese pubbliche, con il risultato di porre sotto pressione i lavoratori già piagati da un’inflazione che non possono sperare d’inseguire con i loro salari e in seguito di reprimere a brutto muso persino gli scioperi e le proteste dei dipendenti delle aziende statali, persino quando hanno denunciato inefficienze e sprechi. Il governo «socialista» in questa particolare contingenza non ascolta molto i lavoratori e accontenta semmai i padroni,  ma l’effetto sulla «produzione» è comunque controproducente perché i lavoratori rispondono con lo sciopero alle durezze del governo e non se ne esce, tanto più che la pessima classe padronale venezuelana approfitta della situazione. Così ad esempio gli assassinii di operai o dirigenti dei popoli nativi, anche qui assediati dal «progresso» che qualcuno vuole portare sulle loro terre, rimangono impuniti anche quando sono clamorosi, come il massacro del cacique dell’etnia yukpa Sabino Romero e di buona parte della sua famiglia. Non che nel resto del paese vada meglio, con il 97% dei casi d’omicidio che restano insoluti, in Venezuela per gli assassini c’è modo di vivere in relativa tranquillità.
Per il resto il governo si comporta in maniera ortodossa verso l’estero, ad esempio pagando con precisione il rimborso del debito e cerca di rispondere anche alla mancanza di dollari, una penuria che di recente sta strangolando anche l’Argentina, iniettando valuta pregiata. Politica pericolosa, che ha portato l’Argentina a prosciugare le riserve prima di alzare bandiera bianca, e che in Venezuela invece prosciuga le pur generose entrate petrolifere. Chavez non è mai stato un grande amministratore, ma la sua natura istrionica gli ha sempre consentito di superare crisi del genere di slancio, il legnoso Maduro invece non ha lo stesso charme, anche se nell’occasione si è dimostrato molto più aperto al confronto del suo predecessore al netto della violenza della repressione nelle ultime settimane. Violenza che a ben vedere appartiene sia alle forze di sicurezza che sparano a pallini sui dimostranti, che l’opposizione occasionalmente armata che ha tentato più volte di sfilare nei quartieri a maggiore densità chavista. Fino ad ora il bilancio segna 14 vittime in tre settimane che possono essere collegate alle proteste e nemmeno tutti dell’opposizione. Un numero di vittime simile a quello registrato l’anno scorso e non distante da quello delle forze dell’ordine brasiliane impegnate a reprimere le ultime proteste contro gli imminenti mondiali, per avere dei paragoni e ben lontano da quelli che segnano uno stato di crisi e l’allarme per massacri imminenti
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Le proteste però hanno avuto una discreta eco e la rete si è riempita di appelli dell’opposizione Venezuelana che lamentava il massacro e nel mondo le comunità di espatriati si mobilitate, inutilmente, per attirare l’attenzione sul paese. C’è una peculiarità in questo ultimo round di proteste venezuelane ed è che sono molto più visibili in rete di quanto non lo siano sui giornali venezuelani o su quelli statunitensi, mai teneri con il bolivarismo venezuelano, che rifiutano esplicitamente paragoni con l’Ucraina, mentre il Dipartimento di Stato si dice estraneo alle proteste. Il governo venezuelano ha comunque espulso tre diplomatici americani, ma l’impressione è che Washington, pur pronta ad approfittarne, abbia poco a che fare con una protesta nata quasi per caso e solo in seguito cavalcata con foga dagli elementi più estremisti dell’opposizione già vicini agli americani, che chiedono le dimissioni di Maduro e il ritorno alle elezioni.
Una decisione, incarnata soprattutto dal già golpista Leopoldo Lopez, che si è lanciato allo scontro frontale con il governo e alla fine si è fatto arrestare per incitamento alla rivolta. Già molto vicino agli  americani, Lopez con i suoi e gli studenti di Juva, un’organizzazione di destra che si sa per certo finanziata generosamente dagli americani in passato, che sparge manifesti con la scritta «uccidi un chavista»,  rappresenta la fuga in avanti del movimento di protesta che si è manifestato nelle ultime settimane e potrebbe paradossalmente avere l’effetto di depotenziarlo. L’opposizione «responsabile» di Capriles aveva guadagnato alla destra molti consensi, la ricerca dello scontro frontale invece prevedibilmente tornerà ad allontanare i voti di quanti ricordano che chi oggi lamenta la repressione, in passato ha sostenuto governi che facevano di peggio e che probabilmente farebbero di peggio.
Le proteste sono cominciate a San Cristobal, il 4 febbraio, quando gli studenti sono scesi in piazza chiedendo più sicurezza in seguito alla rapina e allo stupro ai danni di una studentessa all’interno dell’università. La risposta violenta delle autorità locali che hanno disperso la manifestazione ha provocato altre manifestazioni di solidarietà nel resto del paese e le violenze che ne sono seguite sono poi state accompagnate da una martellante campagna in rete, condotta soprattutto dagli studenti e dagli espatriati, che ha diffuso informazioni molto discutibile e un sacco d’immagini false, generando più di una perplessità. I tentativi di capirne di più hanno illuminato l’assenza di una piattaforma degli studenti e l’evidente sovradeterminazione delle proteste, altrimenti pacifiche, da parte di elementi dell’estrema destra che, come Juva, hanno incitato esplicitamente alla violenza.
C’è da dire che San Cristobal, nella regione di frontiera di Tachira è particolarmente esposta all’influsso colombiano e luogo di egregi traffici, basta pensare che in Venezuela la benzina costa 62 volte di meno che in Colombia per rendersi conto del potenziale criminogeno del floridissimo contrabbando, per stroncare il quale il governo da tempo prometteva fuoco e fiamme, millantando l’infiltrazione di colombiani che probabilmente ci sono, ma che non lavorano agli ordini del colombiano Uribe per destabilizzare Caracas come sostiene Maduro, quanto piuttosto per qualche cartello della droga o del contrabbando in una regione che si trova a oltre 600 chilometri da Caracas, dove il governatore è dell’opposizione e anche il sindaco di San Cristobal che è chavista non ha gradito la voce grossa da parte del governo. Le proteste hanno portato grossi disagi, San Cristobal ha perso l’uso di internet per qualche giorno, ma mancava anche l’energia elettrica, e il governo ha dovuto organizzare un’operazione che ha consegnato al governatore José Gregorio Vielma Mora, finalmente soddisfatto, l’arrivo di 25.700 tonnellate di rifornimenti, oltre a benzina e medicinali per gli ospedali, perché con gli studenti si erano ripresentati in piazza anche i cittadini a fare la fila per ore per la farina e altri beni di prima necessità, 19.000 tonnellate saranno distribuite immediatamente ai cittadini, sperando che bastino a quietarne la rabbia e i disagi.
La Procura nazionale a oggi ha diffuso un bilancio di 45 arrestati ancora detenuti per le violenze nei giorni scorsi, tra i quali tre poliziotti e tre ufficiali dei servizi segreti (SEBIN) che il 12 febbraio hanno aperto il fuoco di fronte alla  Fiscalía di Caracas uccidendo due manifestanti, i giudici dello stesso tribunale li accusano almeno di essere stati presenti e di aver sparato, le indagini diranno a chi. Altri tre militari sono detenuti a Valencia, accusati per aver impiegato le armi. Non ci sono quindi gli arresti di massa lamentati dall’opposizione, se non il fermo di decine di manifestanti poi rilasciati e l’arresto di Lopez per incitamento, sorte toccata anche all’ex generale Angel Vivas, che secondo le accuse aveva incoraggiato gli studenti ad adottare una pratica pericolosissima. Accanto alla polizia hanno operato bande di persone che si spostano in moto e che dovrebbero essere i chavisti che si mobilitano in queste occasioni e che «difendono» il loro territorio scorrazzando in moto e aggredendo gli assembramenti degli avversari. Vivas avrebbe suggerito di tendere dei fili attraverso le strade per impedirne il passaggio e in effetti un povero motociclista è finito decapitato da una di queste improvvisate barriere, una follia.
Vivas si dimise nel 2007 da capo del dipartimento d’ingegneria del ministero delle Difesa rifiutando il nuovo giuramento in stile cubano a «patria, socialismo o morte» e ha accolto i funzionari giunti ad arrestarlo piazzandosi sul tetto della sua abitazione armato di un vistoso fucile mitragliatore. Da domenica è barricato in casa e lancia proclami alla rivolta diretti ai militari, rifiutando di consegnarsi e minacciando di sparare se qualcuno proverà a prenderlo, nelle ultime notizie che ha diffuso via Twitter dice che gli hanno tagliato la linea telefonica fissa. Ma questo fiero anticastrista 2.0 resiste e chiede che si lasci passare il suo avvocato, mentre fuori dalla casa decine di persone e poliziotti attendono l’esito del confronto o che Vivas si decida a cedere, visto che non sembra intenzione delle autorità andare allo scontro, lo stesso Maduro lo ha invitato ad arrendersi senza violenza dicendo che nessuno gli sparerà facendone un martire, per quanto improbabile.
Presenze del genere ovviamente rinforzano sia la propaganda chavista che la genuina convinzione di molti che la richiesta di nuove elezioni fatta con queste modalità non sia altro che un tentativo di golpe da parte d’avventurieri d’estrema destra, anche se l’adesione di quanti hanno protestato contro la situazione economica nel paese o contro la repressione severa delle prime manifestazioni è sicuramente genuina e se è certo che la fiducia nel governo di Maduro sia molto bassa. Chi ha provato a capirci di più ha toccato con mano l’assenza di una piattaforma rivendicativa da parte degli studenti, ma anche la mancanza di un futuro immaginato che vada oltre le dimissioni di Maduro e un apparente disinteresse per quello che potrebbe succedere dopo le sue dimissioni. Sfiducia che però non legittima l’escalation nella violenza e nel caos, che non piace ai venezuelani e nemmeno al governo, visto che le clamorose violenze alla fine si sono rivelate indubbiamente gravi, ma non tali da giustificare certe iperboli che hanno ricordato la demonizzazione stereotipata di Chavez. I venezuelani che hanno manifestato in solidarietà negli Stati Uniti lamentando la repressione e gli arresti, lo hanno fatto senza mettere un piede giù dal marciapiede per non essere arrestati. E gli Stati Uniti sono un paese così democratico che in occasioni delle dimostrazioni che non gradisce procede all’arresto preventivo di migliaia di manifestanti pacifici e alla loro detenzione senza accuse per ore e giorni, non si sa come finirebbe con chi lancia sassi e molotov contro i palazzi governativi, ma se nessuno lo fa è lecito sospettare esiti letali.
Riuscire a domare le proteste punendo i responsabili delle violenze e aprendo i cordoni della borsa statale può essere la reazione giusta nel breve periodo, ma non risolve i problemi che hanno prodotto la situazione di crisi e non risolve la domanda di sicurezza, lasciando a Maduro e agli eredi di Chavez il cerino in mano e un rebus che al momento non sembra avere soluzione, visto che persino l’aumento della economicissima benzina venezuelana sembra in grado di provocare sommosse popolari tra i cittadini come tra gli imprenditori. Spremere di più dalla rendita petrolifera, aumentare l’efficienza della produzione e ridurre sprechi e corruzione sono strade praticabili in teoria e non in pratica e anche i programmi che traspaiono a destra dicono solo di tagli ai servizi sociali e di speranza nei miracoli del libero mercato, che in Venezuela storicamente ha sempre funzionato malissimo